giovedì 4 luglio 2013

Mi chiamo Agnese

La mia storia raccontata con grande coraggio alla radio, qui la potete ascoltare in podcast: Radio 24 - Voi Siete Qui

"Mi chiamo Agnese, ho 15 anni, scrivo da Verona e sono una ragazza affetta di albinismo.
L’albinismo è una malattia rara genetica ereditaria, infatti quando sono nata io, i miei genitori sono rimasti molto sorpresi, non si aspettavano che nascesse qualcosa di così bianco e..puro. Come è di conseguenza il significato del mio nome: pura.
Sono nata per fortuna in mezzo a delle sorelle che mi rendono sempre più forte ogni giorno che passa. Sono la terza di quattro “donne”. Le mie due sorelle più grandi ormai stanno per lasciare la famiglia, mentre quella più piccola sta incominciando a capire cos’è l’albinismo e a chiedermi come e cosa vedo. Dopotutto, noi albini abbiamo una visione molto ridotta: per esempio, vedo circa due decimi anche se vengono peggiorati da molteplici fattori, tra i quali il nistagmo (movimento involontario dell’occhio: di solito oscillazione da destra a sinistra e viceversa) e a volte la fotofobia. (percezione doppia nell’occhio della luce)
Ma questo non mi fa abbattere, anzi mi rende più forte perché con il tempo ho sviluppato molto di più alcuni sensi, come l’udito e il tatto.
Ho avuto un periodo della mia vita in cui mi sono particolarmente chiusa in me stessa, non mi piacevo e non pensavo di piacere agli altri. Non trovavo nulla di particolarmente entusiasmante in me stessa che mi facesse dire “Che bella persona che sei Agnese!”.
Poi nell’autunno della terza media, mia mamma mi accenna di un progetto, di una fotografa e di un calendario. Così inizio a pensare che forse avrei dovuto aderire e provare a farmi fare qualche scatto, anche solo per svago, siccome adoro la fotografia.
Accetto. E in poche settimane mi ritrovo a casa di Silvia, la fotografa di cui mi aveva tanto parlato mia mamma. La sua casa è molto accogliente e dopo aver preso un thè e mangiato qualcosa tra una chiacchiera e l’altra, mi sistema i capelli, legandoli dietro. Fa qualche scatto, io le lascio fare, dopotutto non sapevo come comportarmi, seguo le sue istruzioni. Quando ad un certo punto mi da imbraccio il suo gatto, inizialmente rimango un po’ perplessa, ma poi mi giro verso l’obbiettivo e Silvia scatta la meravigliosa foto che finirà sul calendario.
Questo è stato uno dei momenti che hanno caratterizzato di più il mio essere, quindi mi ha aiutata ad aprirmi e a dire che forse qualcosa di bello in Agnese c’è.
Molti hanno definito la foto splendida, altri l’hanno paragonata a una di quelle donne ottocentesche.. è vero, noto una certa somiglianza, anche se ancora adesso non riesco a dire che sono davvero io in quella foto.
Questa foto è stata fatta vedere a molte persone, ancora prima di farla pubblicare sul calendario, la mia autostima è aumentata e così arrivando fino all’inizio della seconda superiore, in cui facciamo pubblicare finalmente il magnifico calendario con la mia foto e quella di altri bambini e ragazzi albini.
Non ho mai smesso di fare sport o comunque di comportarmi come gli altri, non mi hanno mai creato alcuna campana di vetro i miei, mi hanno sempre lasciata molto “libera”, fino a quando nella mia piscina alcuni “esperti” incontrano il mio talento di nuotatrice. Mi chiedono di voler entrar a far parte di una squadra di disabili sia ipovedenti come me sia disabili dal punto di vista psicologico che negli arti. Accetto con entusiasmo e mi diranno con altrettanto entusiasmo che saranno organizzate delle gare per ipovedenti e disabili. L’inizio della mia idea era che fossero state semplici gare e che probabilmente non sarei mai arrivata prima, avendo poca autostima di me stessa. Ma la situazione si ribalta quando alla mia prima gara, uscita dalla piscina, il mio allenatore quasi freddamente mi comunica che avevo realizzato i tempi per andare agli Italiani Paralimpici di Nuoto. Scoppio in una risata in cui non riesco a capire neanc’ora se era di gioia o di stupore, probabilmente un milkshake di tutti e due.
Arriva il giorno di questi Italiani Paralimpici di Nuoto. Mi trovo praticamente a faccia a faccia con campioni Italiani e Olimpici, come Cecilia Camellini.
Incomincio a chiedermi come fossi arrivata lì, in così poco tempo, fino a quando in poche ore mi ritrovo sul blocchetto di partenza dei 100 metri stile libero. Quando sei li sopra, non hai alcun pensiero, hai la mente completamente vuota. Aspetti solo che quel “A posto!” e che quel suono vengano pronunciati. Il tuo cuore magari batte all’impazzata, ma il tuo corpo non ne da bado e rimane concentrato su quei due segnali in particolare. Ecco, sono in acqua. Sto percorrendo i miei 100 metri come se fosse l’ultima cosa che potrei fare prima di lasciare tutto e andarmene. Arrivo infondo ai primi 25 metri ed è già tempo di fare la virata. La mia poca vista mi assicura che se vedo il segno blu per terra sott’acqua è segno che una bracciata o due e la virata è praticamente già completata. Succede così anche per gli altri 25 metri e quei 50 dopo. Non vedo più nessuno al mio fianco, o per lo meno non intravedo più alcuna sagoma più scura nelle corsie affianco alla mia. Infatti, quando sono in acqua non posso vedere chi c’è nella corsia affianco, perché non riuscirò mai a mettere a fuoco se è una donna o un uomo, se è un ragazzo o una ragazza, vedo solo una sagoma più scura nell’acqua.
Gli ultimi metri li faccio come se fossi stato una di quelle eroine dotate di qualche superpotere speciale e arrivo, finalmente, a toccare con tutte e due le mani il bordo della piscina. Ho il fiatone e l’unica cosa che riesco a fare è alzare lo sguardo verso il mio allenatore che sembrava spruzzare felicità da tutti i pori. Nel frattempo, non avevo capito se ero arrivata prima o ultima, anche se il mio timore era quello appunto di non essere arrivata a dare il massimo e quindi essere stata la quarta di quella batteria, in cui prevedeva ovviamente solo tre vincitori.
Con noi era venuto un altro ragazzo, che ha perso l’uso delle gambe per via di un incidente qualche anno fa. Abbiamo sempre relazionato poco, perché tutti e due molto timidi, ma credo che in quel momento avessimo creato una sottospecie di legame di pensieri, riuscivo a capire cosa stava provando e lui riusciva a capre cosa stessi provando io. E’ sembrato strano anche a me, ma questo è il nostro modo di capirci, avendo comunque tutti e due una disabilità che è superabile. Mi fa i complimenti e scorgo un sorriso vero sul suo viso, come se fosse stato orgoglioso di me.
Arrivano le premiazioni, quando chiamano la famosa batteria dei 100 metri stile libero classe S13, ossia gli ipovedenti come me, la classe più alta di disabilità.
Essendo per me un mondo nuovo, vedere tutti quei disabili è stato davvero di impatto, ho visto molti sorrisi e molte amicizie legate tra di loro con dei semplici sguardi. Le altre ragazze della mia batteria si avvicinano con me al podio. Partono dal terzo posto e io tiro un sospiro di sollievo, non ero io la ragazza ad essere arrivata terza. E a quanto pare nemmeno seconda. Ero forse arrivata quarta?
Una voce squillante annuncia che io, Agnese, ero la nuova Campionessa Italiana Paralimpica di Nuoto e che di conseguenza il mio tempo era stato registrato come record italiano. Primo posto e primo oro, alla mia sola prima gara Nazionale. Il mio allenatore era addirittura più felice di me, io sorridevo ed ero molto felice, ma lui non ha fatto altro che rendermi ancora più orgogliosa di me stessa, facendomi indossare la sua maglietta per la foto di gruppo sul podio. Non ho mai smesso di portare questa sfida che ho in acqua anche nella vita fuori con le relazioni e la scuola. Ho imparato a prendere ogni obbiettivo più arduo con determinazione e con l’aspirazione sempre di riuscirci e arrivare prima. La mia autostima è sicuramente aumentata, come sono aumentate e migliorate le relazioni con gli altri miei coetanei.
Non è stato il solo oro, ma il giorno dopo sono riuscita a conquistarne un altro nei 50 metri stile libero, quasi per un pelo. Esattamente un secondo di differenza dall’altra ragazza che nuotava con me nella mia batteria. E’ stato assolutamente fantastico, ma allo stesso tempo mi ha reso una realtà che non vediamo tutti i giorni. Tutti questi disabili che sembravano come una grande famiglia riunita, in cui l’importante era fare la gara e come andava andava e l’obbiettivo non era arrivare primi, ma soltanto godersi quelle magnifiche giornate tutti insieme.
E’ così che vivo ogni mio giorno, come una sfida in cui l’importante è arrivare al traguardo e almeno avere il buon senso di dire “Ce l’ho fatta, sono arrivata alla fine.”
Non smetto mai di dire “Ce la posso fare” davanti ad ogni ostacolo, così lo supero con più facilità. Sto cambiando e crescendo, ma non smetterò mai di amare quel bellissimo mondo che mi è stato fatto vedere in quelle gare e che
continuerò a vedere nelle prossime.
Sono una persona generalmente timida e riservata anche se il progetto, che spero venga reso visibile a più persone, mi sta aprendo sia psicologicamente che in senso astratto, molte strade di vita e di relazione con gli altri. E’ da lì che ora sono diventata così forte e determinata anche nel nuoto.
Questa è la mia storia, io sono qui."

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